giovedì 14 febbraio 2013

AZZARITI-RODOTA'-LUCARELLI:note sui beni comuni

 
prof Azzariti



Cantiere del Cipax

Centro interconfessionale per la pace

Un luogo di pace per ascoltare racconti, scambiare esperienze, costruire il futuro

Attività 2011-2012

I BENI COMUNI: VIA ALLA PACE GIUSTA

La prospettiva giuridica

Incontro del 8 marzo 2012 con il prof. Gaetano Azzariti, costituzionalista

.





prof Rodota'
  Prof Lucarelli





Vi ringrazio molto dell'invito, mi fa particolarmente piacere stare in questa comunità così

sensibile a questi temi. Io vi parlerò dalla prospettiva giuridica, ma credo che sotto la prospettiva

giuridica, a fianco, forse anche sopra la prospettiva giuridica ci debba essere una sensibilità a queste

tematiche, in assenza della quale qualunque prospettiva, anche quella più strettamente giuridica,

assumerebbe un volto diverso, duro, sbagliato.

Avete visto, leggendo i giornali, che si parla molto di beni comuni. Se ne parla molto anche

proprio nella prospettiva giuridica e devo dire che è altissima, forse addirittura eccessiva, almeno in

questo momento, l'ambizione di dare una definizione giuridica a questa categoria fino a qualche

tempo fa inesistente nell'ambito del diritto. L'ambizione massima di questa teoria è niente meno che

di ridefinire l'intero statuto disciplinare del diritto pubblico, di cui il diritto costituzionale, la

disciplina che insegno, è parte.

Ne parlerò soprattutto nella fase conclusiva della mia riflessione, ma vi anticipo che c'è

un'altissima ambizione che attraverso il bene comune inteso giuridicamente si rivoluzioni o si dia

nuova vitalità all'azione politica. Credo di poter dire con tranquillità, senza bisogno di

dimostrazione, che se in Italia - e non solo in Italia - ci sono due profili che stanno male in salute,

questi sono la teoria giuridica da un lato e l'azione politica dall'altro. Sembra di poter dire che

grande capacità sistematica dal punto di vista teorico in generale (non soltanto giuridico, perché

sono tempi difficili) non c’è, la teoria è in grave crisi; e della politica in quanto tale è banale dire

che ha difficoltà in questo momento.


Io vorrei distinguere allora i due profili. Vi parlerò per gran parte - perché evidentemente è

la parte che più mi compete - del tentativo di ridefinizione teorica del diritto pubblico attraverso la

categoria dei beni comuni; ma alla fine, dato che altrimenti rimarrebbe tutto un po' astratto, credo di

dovervi parlare anche del secondo profilo, di come questo si riflette sull'azione politica in senso

proprio.

Le cose nella storia nascono dai piccoli eventi e sono quasi imprevedibili e questo grande

tentativo di ricostruzione teorica nel diritto pubblico attraverso i beni comuni nasce da un fatto

molto ordinario: tutto inizia quando Clemente Mastella – una persona che non mi sembra di poter

dire che sia un grande innovatore o che abbia una grande passione per rivoluzionare le cose- - come

ministro della giustizia del governo Prodi, incarica una commissione per questi temi, la famosa

Commissione Rodotà. Sapete chi era Rodotà, il presidente di questa commissione. Mastella

istituisce questa commissione per riformare il regime giuridico della proprietà pubblica contenuta

nel codice civile. Quindi in qualche modo una riforma importante, però non certo rivoluzionaria.

Questa commissione lavora intensamente per un tempo assolutamente limitato, otto mesi,

consegna la relazione al ministro e all'interno di questa relazione definisce lo schema di un disegno

di legge delega - più o meno saprete cos'è una legge delega del Parlamento al governo - per la

riforma di questa parte del codice civile. Ma nel frattempo il governo Prodi è entrato in crisi. Nelle

successive elezioni vince lo schieramento di centrodestra, il governo viene assunto dal presidente

Berlusconi, il quale mette in un cassetto questo disegno di legge e non se ne parla più. Voglio dire -

e alla fine capirete che non è del tutto irrilevante - che non se ne parlerà più per il governo del

centrodestra - probabilmente per una ostilità politica, sbagliata io credo ma legittima - nei confronti

della Commissione Rodotà, delle prospettive di cui adesso andremo a parlare. Ma io sono sicuro

che non se ne parlerà più neppure con l'attuale governo Monti, perché questo governo tecnico si

pone in un altro mondo rispetto a quello della teorizzazione del bene comune. Ripeto: adesso è

un'asserzione che devo dimostrare. In questa fase riflettiamo sulla teoria, ma non ci sono ancora le

condizioni storiche per andare oltre.

Ma torniamo alla Commissione Rodotà. In tutto il tempo della modernità, dalla fine del

Medioevo, nel diritto i beni si distinguono in base ad una dicotomia, ad una distinzione netta: beni

pubblici e beni privati. Ancora nel codice civile, ma ripeto, è molto risalente, caratterizza l'intera

modernità giuridica. Si distingue tra bene pubblico e bene privato in base alla titolarità del bene

stesso, se spetta appunto allo Stato ovvero ai singoli, cioè ai privati.

La Commissione Rodotà dice invece che si possono distinguere diversi tipi di beni pubblici,

in qualche modo rompendo questa dicotomia, almeno sul fronte del bene pubblico.

Vi racconto anzitutto rapidamente quello che ha detto la Commissione Rodotà, per poi dirvi

l'evoluzione successiva, perché non siamo fermi alla Commissione Rodotà. In ogni caso, per quanto

riguarda la Commissione Rodotà, questa dice che i beni pubblici si distinguono i tre tipi di beni: i

beni comuni, i beni sovrani, i beni sociali.

I beni comuni - questo dice la Commissione Rodotà, forse non è più così - sono quei beni

che si caratterizzano in quanto sono appartenenti 1) al patrimonio naturale dell'umanità, ovvero 2)

al patrimonio culturale dell'umanità. Tanto per intenderci, appartenenti al patrimonio naturale sono

l’acqua, i fiumi; appartenenti al patrimonio culturale i beni archeologici. Questi devono avere una

disciplina particolare, dice la Commissione.

I beni sovrani sono tutti quei beni pubblici riconducibili ai servizi pubblici essenziali, ovvero

a quei beni di interesse economico generale, erogati in regime di monopolio. Per esemplificare: le

spiagge, le autostrade, beni pubblici essenziali e riconducibili a un regime di monopolio.

I beni sociali sono quelli destinati a soddisfare i bisogni e i diritti civili e sociali delle

persone. Diritti sociali classici: l'edilizia popolare, gli ospedali, gli asili.

Questo è il quadro del bene pubblico secondo quella Commissione. Perché dico che è

rivoluzionario questo modo di pensare la cosa? Perché si passa dall'idea che il bene è legato alla

titolarità del soggetto pubblico o privato all’idea che è legato alla funzione che il bene esercita.

Questa è una cosa almeno dal punto di vista giuridico molto rilevante e con conseguenze importanti

che vedremo.

Non so se è sufficientemente chiaro, ma per rapidità lo dico così: nel diritto pubblico, nella

dogmatica del diritto pubblico, si toccano alcuni punti che sono essenziali, costitutivi del diritto

pubblico stesso. Insomma qui si parla dei diritti fondamentali della persona, che in qualche modo

vengono tutelati in modo diverso rispetto a quanto si propone in termini funzionali appunto. Si

parla della proprietà pubblica o privata, si parla di principi di sovranità. Nel regio decreto del 1885

sapete perché si dice che il beni demaniali sono beni pubblici? Per una sola ragione: a titolo di

sovranità, perché spettano alla sovranità dello Stato. Qui si cambia il quadro.

Forse eccitati dall'importanza dei temi coinvolti, i giuristi si sono sovraesposti. Credo che

oggi il dibattito pubblicistico dei giuristi appunto sul tema dei beni comuni sia ancora confuso, cioè

c’è il rischio che si voglia tentare di estendere il bene comune a tutto. Allora attenzione, perché se

tutto è bene comune, nulla è bene comune. Questa è una mia impressione, altri la pensano in modo

diverso. Vorrei evitare di fare nomi e cognomi perché non ha importanza per la nostra riflessione

chi come e quando tende a estendere troppo e chi come e quando tende a ridurre troppo questa

categoria nascente che potrebbe essere così importante, però mi sembra significativo ricordare

almeno un nome e un fatto.

Il padre putativo di tutto ciò, cioè Stefano Rodotà, poco tempo fa (ma ancora una settimana

fa su un quotidiano) denunciava quanto vi sto dicendo io: attenzione, perché qui si rischia di

allargare troppo la categoria e perdere della sua importanza, che io vi ha detto per primo essere

molta, rivoluzionaria in qualche modo. Però attenzione, perché se l'allarghiamo a tutto si perde nella

sua capacità precettiva, giuridica in senso proprio.

Allora credo che la domanda che ci dobbiamo porre è: cos'è un bene comune? Cerchiamo di

delimitarlo. Forse sarà perché io insegno diritto costituzionale, la tesi che io sosterrò sarà la

seguente: che i beni comuni devono in qualche modo collegarsi strettamente con la dimensione

costituzionale dei beni stessi. In qualche modo il problema dei beni comuni è il rapporto che essi

hanno con la costituzione vigente, nel nostro caso cioè con la costituzione del 48. Ripeto con altre

parole lo stesso concetto: per delimitare (questo è il problema) la categoria dei beni pubblici

dobbiamo in qualche modo leggere i beni pubblici alla luce della costituzione.

Allora vado rapidamente a un tentativo di definizione migliore rispetto a quella che vi ho già

dato che era della commissione Rodotà, che non è certamente mia, ma è il risultato dell'evoluzione

del dibattito che si sta svolgendo.

Io penso di poter meglio classificare i beni comuni rispondendo alla seguente domanda:

esistono beni che in ragione della loro natura possono distinguersi dai beni privati? In ragione della

loro natura, ovvero in ragione del loro uso, non possono essere rimessi alla disponibilità dei singoli

perché svolgono una funzione comune appunto; però questa funzione comune non può essere

neppure rimessa o riservata soltanto al pubblico statale, allo stato. Perché se è vera la premessa del

discorso di Rodotà, che bisogna rompere la dicotomia pubblico-privato, questo è implicito nel

discorso.

In qualche modo si tratta di capire - ed è un bel problema, di cui spero di darvi contezza più

avanti – che il bene che è comune, che in qualche modo è pubblico, però non può essere

semplicemente relegato alla titolarità di un soggetto diverso da quello privato, cioè allo Stato.

Perché ovviamente il tradizionale bene pubblico gestito dallo Stato può essere assolutamente gestito

a fini economici non comunitari: le società pubbliche sono società che operano nell'ambito del

diritto privato, pur se di titolarità pubblica.

Adesso io non voglio entrare in quest'altra discussione, ma l'unico elemento che voglio far

emergere è questo: la titolarità pubblica non garantisce la finalizzazione comune; non è che la

esclude, per carità, non sto dicendo questo - anzi la potrebbe garantire meglio, la dovrebbe garantire

meglio, forse la garantisce meglio, ma non necessariamente lo fa.

Allora alla luce di questa domanda ripartita su natura del bene e funzione, io arrivo a questa

conclusione: i beni comuni sono 1) quei beni essenziali alla sopravvivenza del genere umano,

ovvero 2) quei beni che in quanti essenziali alla sopravvivenza del genere umano si pongono a

fondamento della sua possibilità di sviluppo, se è vero - come io credo sia vero, ma questo è un

elemento di riflessione - che alla persona umana non può essere garantita soltanto la mera vita, ma

deve essere garantito anche lo sviluppo della sua personalità.

Allora i beni comuni sarebbero, secondo questa definizione, quelli e solo quelli essenziali

alla sopravvivenza del genere umano da un lato e anche quelli che si pongono a fondamento della

sua possibilità di sviluppo.

Se questa è la definizione, l'esemplificazione è chiara. Poi l’elencazione può essere più o

meno ampia, ma questo è un altro problema.

Per esempio l'acqua. Voi sapete che dal punto di vista politico (di cui parleremo alla fine)

tutto questo si apre col referendum sull'acqua bene comune appunto. Allora è chiaro: che l'acqua o

l'aria sono essenziali per la sopravvivenza non credo proprio di doverlo dimostrare, su questo non

c'è discussione.

Però se i beni comuni sono anche quei beni che non soltanto ti fanno vivere, ma che ti

permettono di formarti come uomo o come donna, è chiaro che anche un’altra serie di beni si

affiancano a questi. Ne dico due.

Oggi – oggi, per dire come i beni comuni sono storicamente determinati perché ieri

certamente non era un bene comune – forse l'accesso a Internet è un bene comune, perché è

necessario per la formazione delle persone. Lo dico ai più giovani, non perché i più anziani o quelli

delle epoche passate che si sono formati senza Internet non si siano formati.

E poi non c'è uomo senza la cultura. E allora forse la cultura è un bene comune, essenziale

alla vita.

Potrei fare altri casi, ma spero che sia già sufficientemente chiaro quello che voglio dire.

La conseguenza dal punto di vista giuridico però qual è? E guardate che ci stiamo

affacciando a quello che dovrebbe essere il risvolto politico, che implicitamente in queste mie

parole già c’è. Perché se questo è, la conseguenza giuridica ma anche politica è che in tutti questi

casi - essenziali per la sopravvivenza e la formazione - la loro soddisfazione, l’esigenza per ogni

singolo persona di godere di questi beni comuni non è negoziabile, non è contrattabile, si definisce

come obbligo, come un obbligo di risultato.

Per questo io dicevo che il bene comune non può avere uno sviluppo se non riesce ad

agganciarsi alla costituzione. Perché dal punto di vista giuridico la nostra legge suprema è la

costituzione e allora soltanto la costituzione, in un ordinamento laico come il nostro, può imporre

un diritto inviolabile o comunque la non negoziabilità di un qualche bene o di un qualche diritto.

Se ragioniamo in questi termini capiamo che il bene comune potrebbe rivoluzionare il modo

di essere ‘corporativo’. Facciamo l'esempio dell'Università. Parlo dei mali dell'Università con un po'

di vergogna perché so che tutti stanno male, quindi potrei parlare dei mali di altre istituzioni.

Ci sono tagli terribili sul sistema universitario. L'università ormai ha assunto una logica di

tipo aziendalistico, perché costa troppo, il sapere ormai è una merce come un'altra. Questo è

ammissibile se l'università è un bene, pubblico o privato. Anche se è un bene pubblico perché, come

dicevo poc'anzi, se l'università è un bene pubblico indifferenziato, diciamo così, così come il

pubblico può privatizzare magari alcuni suoi beni economici di rilevanza economica, così può

privatizzare o comunque aziendalizzare il sapere. Se però l'università è un bene comune, questo

diventa non più negoziabile. Non può più essere considerato merce, quindi non può essere

considerato sul piano delle compatibilità economiche.

In fondo l'articolo 9 della nostra costituzione questo scrive. Si dovrebbe leggere in termini

tradizionali questa nuova categoria. Anzi, lo voglio dire subito in modo esplicito: io penso che il

bene comune potrebbe farci fare una riscoperta di una dimensione dimenticata del diritto, oscurata

nei tempi più recenti.

Questo è un mio giudizio in cui io credo fermamente, ma non ve lo vendo come verità, può

essere discusso: io penso che negli ultimi trent'anni si è oscurata la dimensione costituzionale dei

problemi, perché ha prevalso quello che Ignacio Ramonet, ex direttore di Le Monde Diplomatique,

ha chiamato ‘neototalitarismo liberista’. È prevalsa quella che Walter Benjamin diceva essere la

‘teologia economica’, cioè quando l'economia diventa dio. Questa teologia economica, questo

neototalitarismo liberista, non è più la salvaguardia della dimensione economica in quanto tale - che

certamente ha le sue prerogative, regole e riflessi - ma tende a scivolare fuori dal piano che è

proprio dell'orizzonte del costituzionalismo moderno.

Vorrei dimostrare questa mia tesi brevemente. La storia del movimento politico e giuridico

del costituzionalismo moderno – avete capito, sto cercando di portare questa categoria nuova

all'interno di una tradizione costituzionale importante da non perdere - nasce come progressivo

affermarsi dei diritti nei confronti dei sovrani. Così diciamo noi costituzionalisti con enfasi: a cosa

serve il diritto costituzionale? A limitare i sovrani.

In realtà, per specificare meglio, l'ambizione utopica – ma è un’utopia concreta che si è

realizzata in parte nella storia - è quella di dividere il potere. Ricordate Montesquieu. Per questo

dico ‘la tradizione del movimento costituzionalista’: non è questione di oggi, è questione che risale

al seicento. Vorrei farvi capire l’importante contesto storico all'interno del quale si inserisce questa

categoria nuova.

Dicevo: è il progressivo affermarsi del diritto contro i poteri, contro tutti i poteri, se no non

ha ragion d'essere, se no è il costituzionalismo dell'antichità, che certamente era di carattere

descrittivo, aveva altre logiche, altre dinamiche, ma non è il costituzionalismo moderno, quello che

almeno nasce dall'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, che

impone che il diritto costituzionale si imponga sui poteri, tutti i poteri, anche quello economico.

Per cercare di esprimere l'importante contesto storico all’interno del quale si inserisce questa

riflessione permettetemi di allargare ancor più il discorso. .

Il diritto costituzionale moderno che diventa storia, che diventa atto politico duecento anni

fa con le rivoluzioni borghesi - che sono quella inglese del 1689, poi quella americana, poi

soprattutto per noi nell'Europa continentale quella francese - in realtà ha le sue radici molto prima,

nel seicento, almeno con i tre filosofi contratturisti più noti che tutti conoscete e che sono molto

diversi tra di loro: Hobbes, Locke e Rousseau.

Io non so se è vero - probabilmente non è vero, è una semplificazione - che Hobbes è il

fautore dello Stato totalitario, però certamente ricordate Hobbes: si cedono tutti i diritti al

Leviatano. Ma perché si cedono tutti i diritti al Leviatano in questa dimensione assoluta e in qualche

modo un poco autoritaria della dimensione costituzionale? Per salvarsi la vita. Perché c'è un'unica

cosa che non si cede al sovrano, al Leviatano che in quanto legibus solutus non è vincolato a nessun

contratto, può fare qualsiasi cosa: la vita. Il sovrano può far tutto, può ordinare tutto, tranne una

cosa: di suicidarsi, perché il diritto alla vita in qualche modo è un diritto inalienabile, anche in una

dimensione totale come quella Hobbesiana.

Locke (anche qui semplifico) è considerato, e in gran parte lo è, il contrattualista dello Stato

liberale, perché dice: non solo la vita, ma anche la proprietà. Quindi certamente ha una caratura

ideologica, potremmo dire così, forte. Certamente rispetto a Hobbes c'è una dimensione dei diritti

più soddisfacente. Ma cosa dice anche Locke? che il sovrano ha il dovere di garantire la vita e, lui

dice, garantire la proprietà, perché in qualche modo è un bene comune: non lo dice certamente così,

però certamente è essenziale alla vita delle persone.

Rousseau, il terribile Jean Jacques Rousseau - io ho scritto anche su di lui, per quanto

possibile lo conosco bene - è difficile da interpretare, tanto è vero che è stato interpretato da Hegel,

è stato interpretato da Kant, è stato malamente interpretato, anzi disprezzato da Carlo Marx, eppure

molti della scuola marxista sono Rousseauiani. Per dire che è una figura molto eclettica. Ma

Rousseau diceva esattamente il contrario di Locke: la proprietà è l'origine di tutti i mali. Adesso io

non voglio dire chi ha ragione tra Locke e Rousseau, ciascuno di noi può pensare della proprietà

quel che crede. Rousseau sostiene invece l'uguaglianza, l’égalité, la liberté e forse anche la

fraternité. E’ il padre della rivoluzione francese, del giacobinismo. Bene, anche lui come giustifica

il contratto? Col fatto che bisogna rispettare la vita e i valori ad essa inerenti storicamente

determinati: ora la proprietà (Locke), contro la disuguaglianza e per la libertà secondo la

concezione di Rousseau. Tutti soggetti che nel seicento dicevano che bisognasse garantire in modo

indiscutibile alcuni beni che alla vita sono legati. Non c'era Internet e quindi non parlavano di

Internet. Io ho parlato di Internet perché non sono un uomo del seicento e tra seicento anni chissà di

che si parlerà.

Lasciamo questo contesto appena accennato e veniamo finalmente all’oggi. Veniamo alla

nostra costituzione. Io ho questa impressione: che i beni comuni siano un’innovazione rispetto alla

visione che pure la costituzione ha. Cioè non sottovaluto la capacità innovativa, pur ritenendo che

debba essere interpretata alla luce della costituzione stessa. Anzi, se noi leggiamola la costituzione

vediamo che nella costituzione c'è un'ambiguità, perché da un lato la costituzione ha tra i suoi

principi fondanti qualche cosa che è molto strettamente legato a quanto vi sto fin qui dicendo.

All'articolo 2 della nostra costituzione si afferma che i diritti inviolabili dell'uomo sono da

garantire. Costantino Mortati - un grande costituzionalista che ha partecipato all'assemblea

costituente, cattolico – diceva che tra i cinque principi più fondamentali della nostra costituzione

esisteva il principio personalista: la persona umana sopra ogni altra cosa. C’è scritto. Però è anche

vero che l'articolo 42 al suo primo comma parlando dei beni, o meglio della proprietà (quindi in

qualche modo collegandosi ai beni), conferma la visione dicotomica di cui dicevo all'inizio. Dice

testualmente l'articolo 42 primo comma: “la proprietà o è pubblica o è privata”, un terzo genere non

c'è. Quindi il diritto comune in costituzione non c'è scritto, è un'innovazione e quindi un problema

per il costituzione e per chiunque si voglia porre in questa prospettiva.

Di più. Anche qui riprendo, intanto perché ne ho grande ammirazione e stima, quanto dice

Stefano Rodotà; non perché sia l'unico che dice queste cose, ma in questa occasione mi sembra

giusto fare riferimento a lui. Da tempo scrisse: "in sede costituente si è persa un'occasione, perché

nel dibattito dell’assemblea costituente venne subito escluso lo scoglio della proprietà collettiva”,

cioè si percepì l'idea che forse c'era qualche altra cosa, oltre al bene o alla proprietà pubblica e

privata, che c'era anche una possibilità di proprietà collettiva, eppure se leggete alcune disposizioni

costituzionali che potevano sollecitare a questa riflessione, non ce n'è traccia, in realtà. La

cooperazione: era lì il momento in cui bisognava affermare il principio della proprietà cooperativa e

nell'articolo 45 non è indicata, c’è poco da fare. Nell'articolo 44 a un certo punto, parlando della

proprietà terriera, si pone un limite all'estensione della proprietà terriera, ma non si parla di quello

che è un altro modo di possedere, oltre a quello pubblico e a quello privato.

E allora non c'è bene comune? No, io credo di avervi detto pochi minuti fa che c’è

un'ambiguità da sviluppare. Perché se poi leggiamo sistematicamente vediamo che c'è l'articolo 43

della nostra costituzione in cui si formalizza che “si può riservare alle comunità di lavoratori e di

utenti alcuni servizi pubblici essenziali”. Ripeto (le parole sono pietre nel diritto costituzionale): si

può riservare a ‘comunità’ (parola ripetuta tre volte) di lavoratori e di utenti alcuni servizi pubblici

essenziali di preminente interesse generale.

Che vuol dire? Mi interrogo non retoricamente, perché bisogna interpretarle le costituzioni.

Che vuol dire? Che esistono beni a titolarità diffusa? Alla luce dei beni comuni mi verrebbe da dire

di sì. Certo è che nella nostra costituzione, oltre alla dicotomia di cui dicevo poc'anzi, si pongono

molti limiti alla proprietà pubblica o privata. Chi sa un po' di diritto lo sa già. Non so se c’è qualche

studente di diritto costituzionale, perché su questo vengono bocciati se non lo sanno, quindi lo

sanno senz'altro. Ma anche chi non ha fatto l'esame di diritto costituzionale probabilmente ne avrà

sentito parlare. A proposito di proprietà privata nell'articolo 42 si dice in costituzione che “la

proprietà privata deve garantire la funzione sociale”, cioè non si può utilizzare la proprietà pubblica

o privata in modo indeterminato. Il neo totalitarismo liberista di cui dicevo non è scritto nella nostra

costituzione, anzi c'è scritta un'altra cosa. E poi dovremmo dire certamente – e questa è materia di

discussione - cos'è la funzione sociale e come questa si realizza.

C'è un'espressione bellissima secondo me nella costituzione di Weimar, che come sappiamo

è la costituzione della Germania tra le due guerre, che scrive a un certo punto che la proprietà

privata ‘obbliga’.

L’articolo 41 dice che l'iniziativa economica privata certamente è libera, però “non può

svolgersi in contrasto con l'utilità sociale e la legge indirizza per conseguire i fini sociali

dell’iniziativa economica privata”.

Allora qual è la vera sfida dei beni comuni? Che in qualche modo devono esplicitare questa

valenza sociale che nella costituzione è già chiara.

Qui vi faccio l'esempio di una discussione che se avete seguito i giornali conoscete: quella

che si svolse prima durante e dopo il referendum sull'acqua bene comune. Probabilmente

ricorderete la polemica che ci fu. I critici dicevano: i referendari, coloro che volevano evitare la

privatizzazione dell'acqua bene comune e sostenere le ragioni dell'acqua come bene comune, in

realtà o esprimono il falso (questo dicevano i critici più radicali) o comunque hanno capito poco o

nulla di quello di cui stanno parlando, perché l'acqua rimane nella titolarità del pubblico. L'acqua

attualmente certamente rimane bene pubblico, nessuno se ne appropria, è soltanto - io questo

‘soltanto’ lo dico quasi ridendo - la gestione che può essere data al privato. Perché protestate?

Acqua bene pubblico? Lo è. La gestione poi è affidata al privato con concessioni, il pubblico

controllerà il privato e per risanare la rete idrica, che tanto ha bisogno di risanamento, si utilizza

questo meccanismo economico. Neototalitarismo liberista: è un mero meccanismo economico, che

serve per garantire il bene che rimane pubblico.

Nella dimensione della titolarità e non della funzione di cui dicevo, in fondo ha quasi una

sua logica, se non fosse che i giuristi dall'inizio del novecento sanno che quello della distinzione tra

titolarità e gestione è un imbroglio. E sapete quando i giuristi hanno capito che questo era un

imbroglio? Non parlando dei beni pubblici, ma parlando della società per azioni, quanto di più

privato ci sia. Tutti i giuristi sanno, tutti i giuristi devono sapere, che nel 1932 due autori americani,

certamente non rivoluzionari, Bohr e Mills, scrivono un libro che è nella storia del diritto privato

civile societario americano, un libro importante: ‘Le corporazioni moderne e il diritto di proprietà’ e

sostenevano, dati alla mano, che della proprietà non c'era nessun bisogno, perché bastava possedere

la gestione del 2% della General Motors per avere il controllo della General Motors. Questa è una

regola che tutti i giuristi sanno ed è evidente che è così.

Allora la leggenda di coloro che credono che sia sufficiente l'imputazione formale della

proprietà e che la gestione sia soltanto una conseguenza e che il regime giuridico sia dettato dalla

titolarità del bene e non dalla gestione è una leggenda metropolitana, anzi storica, ormai del tutto

superata. È lo sfruttamento economico evidentemente che vale, la strategia del servizio viene

determinata da chi lo gestisce, non da chi ne è proprietario.

D'altronde la stessa idea di istituire un’authority per la gestione privata dell’acqua pubblica è

la dimostrazione, in qualche modo la confessione, che non si vuole uscire dalla dicotomia pubblicoprivato.

Perché per carità, io ho detto e dico che viviamo in un tempo di neototalitarismo, di

offuscamento delle ragioni del liberalismo, ma non sto dicendo che bisogna cancellare il mercato

dalla faccia della terra. Ebbene le autorità di garanzia cosa fanno? Cercano semplicemente di dare

un volto più umano al mercato, ma non ne negano la gestione privata. Cosa fa la Consob? Cerca di

regolare il mercato della Borsa, ma non nega l'esistenza della Borsa, ci mancherebbe altro! sta lì per

questo. Cosa fa l'antitrust? Cerca di regolare il mercato, ma non nega il mercato, ci mancherebbe

altro!, è un'autorità al servizio, per un migliore svolgimento del mercato stesso. Cosa dovrebbe fare

l'autorità per l'acqua pubblica? Evitare che le cose peggiorino nella gestione della proprietà privata.

Ma la gestione in qualche modo che cosa presuppone – necessariamente, perché se voi faceste i

gestori della società di diritto privato per l'acqua pubblica cosa dovreste fare? Profitto. E che altro?

Lo dico senza scandalo, perché altrimenti… però dobbiamo accettare questa logica. Allora la

domanda vera è questa: si possono fare i soldi sull'acqua? forse sì, ma la finalizzazione qual è?

Io dico questo allora: qui c'è un pregiudizio anti pubblicistico, anti comunitario; c’è un

atteggiamento manicheo infondato, in base al quale solo il privato può gestire bene i beni, quali che

essi siano, al di là della sua finalizzazione. E’ vero, è assolutamente vero: il pubblico può sprecare,

può lottizzare, può non funzionare: quanti esempi ne abbiamo! Ma a non voler essere ideologici -

perché molto spesso si è accusati di essere ideologici - a non voler essere prevenuti: perché, il

privato no? Non può avere uguali difetti e di più?

Nel caso dei servizi pubblici, attenzione: ci può essere una spirale perversa, una connessione

tra politica, pubblico e privato; una connessione inevitabile, non foss'altro perché giustamente

questa gestione viene data attraverso una concessione, quindi necessariamente è il pubblico che dà

al privato, tanto più stante la proprietà del bene. Allora la connessione può trasformarsi in

collusione. Quante volte è successo? Voglio dire: se siamo non prevenuti, dovremmo ragionare

sulla soluzione maggiormente efficiente. E’ vero: il servizio idrico spreca un sacco di acqua, ci

vorrebbero miliardi di investimenti. Allora la domanda che mi pongo è chi li fa questi investimenti,

se lo può fare pubblico o il privato. Ma perché dire che lo può fare soltanto il privato?

Io credo che tutto questo ci debba portare a riflettere sul modello di sviluppo dal quale

partire, quale vogliamo. In questi ultimi minuti fatemi dire quanto vi ho preannunciato all'inizio, la

prospettiva più strettamente politica che i beni comuni riflettono. Vedete, c'è un problema: un terzo

genus tra pubblico e privato.

Il comune di Napoli è il primo comune che ha un assessorato ai beni pubblici e proprio

sull'acqua sta sperimentando qualche cosa. Si sostiene che il bene comune, non essendo né pubblico

né privato, deve essere gestito in comune. Ma usciamo fuori dalle parole, perché poi dobbiamo

capire che cosa vuol dire. Si dice molto spesso - e qui è il rischio del bene comune – che il bene

comune deve essere gestito dalla comunità, dai soggetti direttamente interessati.

Si dice: anche il teatro Valle occupato qui a Roma è un bene comune; anche la lotta dei NO

TAV è un bene comune, perché sono gli abitanti di quella valle che in qualche modo difendono il

bene comune territoriale e in qualche modo sono i diretti responsabili di quel bene. Fatemi dire con

franchezza, con problematicità, perché io su questo credo che bisogna riflettere prima di prendere

posizione, che in tempi di populismo c'è un rischio: non sempre va bene demandare al popolo,

perché nella comunità indifferenziata non c'è soltanto il bene, c’è anche il male, le comunità

possono essere comunità razziste, le comunità possono essere comunità egoiste, le comunità

possono essere comunità che in qualche modo si appropriano del bene comune per farne strame.

È vero, in questi tempi di crisi politica, ci deve essere un impulso costante dei soggetti

esterni al circuito della rappresentanza. Perché così è, perché l'esempio che vi ho fatto dal

referendum sull'acqua che è stata un'esperienza positiva straordinaria. Io penso che sia

estremamente positiva anche l'esperienza che vi ho raccontato sui No TAV e sul teatro Valle, con

tutta la problematicità e le criticità che si possono sollevare. Però mitizzare il fenomeno

partecipativo può portare a personalismi, alla degenerazione dello stesso, al populismo. E noi

abbiamo visto in tempi passati, in tempi recenti, in tempi presenti, quanti danni il populismo può

fare.

E poi fatemi dire da costituzionalista. E magari succede che al teatro Valle (mi auguro), a

Napoli (mi auguro), forse anche tra i No TAV (mi auguro), esistano micro sistemi di governance

perfetta, utopicamente perfetta. Probabilmente nessuna di queste cose lo è, come tutte le cose della

terra, ma ammettiamo che lo siano, esperienze felici, efficienti. Ma non c'è un rischio di

disuguaglianza? Fatemi dire, a me costituzionalista, che all'uguaglianza bisogna tenere. Cioè non c'è

il rischio che c'è un meraviglioso paradiso terrestre al teatro Valle e poi a Napoli, a Catanzaro, in

Piemonte, tutte le altre persone che sono fuori del teatro Valle non ci sia cultura?

E allora il problema del bene comune qual è? E’ la capacità di essere un bene comune di

tutti, non un bene comune di alcuni fortunati.

E poi noi veniamo fuori, o siamo ancora immersi, nel populismo più sfrenato. Scusate se

dico una cosa un po' forte: il nazionalsocialismo non c'entra nulla con quello che stiamo dicendo,

ma col populismo molto sì. Hanna Arendt ha scritto pagine che vi invito a leggere sulla nascita dei

totalitarismi e lei sostiene - e io con lei - che i totalitarismi, le peggiori dittature, non possono non

nascere (una doppia negazione rafforzativa) se non sulla base del consenso popolare. Questo è

sgradevole a dirsi, è sgradevole a pensarsi, però se non c'è consenso non c'è dittatura. E questo

dovrebbe farci riflettere.

Vi ho fatto questo esempio perché cerco di farvi notare la problematicità del discorso. Non

voglio certo dire che c'è o ci può essere una dittatura sui beni comuni, però il rischio di populismo

c’è.

E allora qual è l’arma contro il populismo? Vi dirò qualcosa di assolutamente inattuale, per

concludere: la rinascita della politica. Inattuale perché sembra che di politica oggi non si possa

parlare. La rinascita della politica, il confronto con il potere. Perché voi sapete che è molto facile e

molto rassicurante non guardare in faccia il volto demoniaco del potere, perché ogni tanto di questi

tempi viene naturale distogliere lo sguardo, soprattutto per le persone perbene. Però questo non ce

lo possiamo permettere. E allora il confronto. Detto questo, non voglio essere demagogico: c’è un

volto demoniaco del potere, ma c'è anche un volto idilliaco del potere, perché francamente

dobbiamo non essere manichei e sapere che il potere illuminato, il potere che illumina,

kantianamente che dà la luce, è il potere che permette di garantire i diritti sociali, i diritti delle

persone e magari anche i beni comuni.

E allora il confronto-scontro-incontro con il potere è una necessità, non ci si salva l'anima

guardando dall'altra parte, ci si salva l'anima forse con una teoria dei conflitti. Perché quello che vi

sto dicendo è questo: che con il potere bisogna scontrarsi, che noi tutti nel nostro piccolo siamo

piccoli poteri e che in qualche modo bisogna farsi valere. Nel rispetto delle regole, però in qualche

modo la nostra costituzione dà alcune indicazioni importanti, dà uno strumento all'articolo 39 per

questo confronto, che sono i partiti politici, perché tutti i cittadini possano concorrere con metodo

democratico alla determinazione della politica nazionale. E le parole della costituzione sono pietre,

ognuna delle parole della costituzione è assolutamente significativa. Oggi i partiti sembrano in crisi,

non c'è dubbio, c'è qualche cosa fuori dei partiti. Ma io credo che intanto senza i partiti sarebbe

difficile sopravvivere al populismo appunto e che il contributo dei cittadini fuori e dentro i partiti

sia necessario perché i beni comuni diventino beni costituzionalmente garantiti

DIBATTITO

Stefano Toppi: Mi incuriosivano due cose. Da una parte il bene comune cultura, perché

cultura è un termine molto vasto, quindi dentro la cultura ci sono le scuole, le università, la

conoscenza, i brevetti e tutto quello che comporta. L'altra: il discorso di Internet bene comune.

Internet è un'entità abbastanza strana perché è nata in modo spontaneo, di fatto la rete Internet non

è di proprietà di nessuno, però se ti vuoi attaccare devi pagare, perché il filo che ti porta a casa tua

Internet o la chiavetta che funziona sul cellulare è gestita da un gestore che ha messo su il servizio e

si fa pagare. Quindi è un po' il principio opposto a quello dell'acqua, perché l'acqua in genere invece

nasce pubblica, proprietà di un comune o di un consorzio di comuni, che lo danno ai cittadini a

condizioni agevolate, mentre le reti telefoniche nascono private (per quanto ne so) e uno per

attaccarsi deve pagare. Quindi posso capire la bellezza del concetto di Internet bene comune, però

penso che schiodare le società gestrici sia dura.

Giorgio Piacentini: Io volevo solo sapere se per il cittadino c'è una tutela per difendere i

beni comuni.

Domanda: Vorrei sapere se Internet non rappresenta la possibilità di esaudire proprio la

spinta populista.

Domanda: Ci sono esperienze in altre costituzioni, sia in linea di principio, sia in linea di

realizzazione pratica di questi principi?

Claudio: Abbiamo l'impressione che nelle università i professori, gli insegnamenti, sono

esattamente allineati col sistema dominante, col neoliberalismo totalizzante e cercano di

approfondire e di trasferire questi insegnamenti dogmatici ai ragazzi e alle ragazze. E’ così oppure

no? Insomma abbiamo l'impressione che non ci siano anche degli insegnamenti invece critici, che

aprano la mente delle persone ad alternative, a nuove prospettive che li mettano in inquietudine,

piuttosto che dargli delle sicurezze

Risposte del professor Azzariti

In realtà anche l'acqua non è che nasce come bene statale, nasce come bene comune nella

natura, mentre una formazione giuridica storicamente determinata, lo Stato, la cui datazione è molto

recente nella storia dell'umanità, assume alcune prerogative sovrane. A un certo punto nel corso

della storia si stabilì che a garanzia dei diritti fosse opportuno che il sovrano gestisse i beni della

natura. C'è una riflessione che può riguardare anche il medioevo: un tempo era il sovrano

proprietario della natura, poi si è ritenuto, in un'evoluzione storica importante, che invece fosse lo

Stato il maggior garante dei beni della collettività. Nello Stato democratico questo si realizza in

gran parte.

E lì torniamo alla distinzione tra titolarità e gestione. Dopodiché, che lo Stato si goda il

monopolio di alcuni beni, sia titolare di alcuni beni, o che sia proprietario di alcuni beni come

l'acqua, il problema giuridico è quello dello sfruttamento economico del bene stesso, dell'acqua in

questo caso. E qui ritorna il discorso che vi ho accennato poc'anzi, quando la titolarità rimane allo

Stato che però non lo tutela direttamente ma viene dato in mano a un gestore privato, il problema

diventa di carattere privatistico.

Su Internet la questione in qualche modo è analoga. Lo sfruttamento economico del bene

Internet ha certamente una rilevanza economica sempre maggiore e lo sarà sempre più; quel che si

cerca di affermare quando si dice che Internet è un bene comune è la garanzia di accesso al bene.

Tra le tante riforme costituzionali strampalate che vengono approvate o che comunque si

discutono in Parlamento c'è una proposta di legge di riforma costituzionale dell'articolo 21 (che

prevedo che non verrà approvata) secondo cui si vuole scrivere in costituzione la garanzia di

accesso a Internet. Badate che questo non comporta il comunismo di Internet, non comporta il fatto

che non si possa sfruttare economicamente questo bene, perché lo sfruttamento economico non

dipende tanto dall'accesso, da quello che viene pagato dai singoli soggetti, quanto dallo

sfruttamento pubblicitario: Google vive in forza delle sponsorizzazioni e non certo per il fatto che

qualcuno si collega a Internet.

Badate che l'eventuale garanzia costituzionale di accesso a Internet è un problema di non

poco momento, perché la garanzia di accesso vuol dire anche garantire la possibilità dello strumento

oggetto, che è il computer, che ha un suo costo e quindi c'è un riflesso di questo tipo.

Questo mi colleghi anche alla seconda domanda fatta: qual'è la tutela. Io nella mia

prospettiva l'ho ben chiara: la tutela è quella costituzionale. Nel momento in cui il bene comune è

un bene costituzionale, questo ha la copertura costituzionale. Farò un esempio molto generale. I

diritti sociali nella nostra costituzione sono garantiti a tutti: il diritto alla salute è garantito a tutti.

Questa è la tutela costituzionale possibile. Se invece la categoria bene comune, come prima

accennavo, diventa troppo estesa e fuoriesce, o comunque non riesce a ricollegarsi con la

dimensione costituzionale, allora il problema di tutela c’è, perché deve essere inventata e non sarà,

io credo, una tutela così ampia e forte come può essere quella che costituzionalmente s'impone.

La domanda su Internet e populismo. Dentro Internet c'è di tutto, Internet è uno straordinario

strumento di democrazia e di crescita dei popoli. Voi lo sapete, io non sto facendo retorica, è così,

lo sappiamo tutti: tutti i grandi movimenti di massa di questi tempi hanno avuto lo strumento

principale in Internet: la rivoluzione araba, le rivoluzioni del Nord Africa, sono state rese possibili

da questo strumento. Mubarak quando è stato in difficoltà la prima cosa che ha fatto è stato di

vietare l'accesso a Internet e comunque il primo problema dei regimi traballanti è bloccare questo

strumento di comunicazione.

Dicevo che c'è di tutto, e quindi anche il peggio. E poi Internet è uno strumento, non

permette il risultato: ha permesso la rivoluzione araba, dopodiché ricordate come ho concluso la

mia chiacchierata? Il confronto con il potere non è eludibile e le rivoluzioni del Nord Africa in

qualche modo lo dimostrano: hanno fatto una grande rivoluzione, però ho l'impressione che non

siano messi molto bene, cioè ho l'impressione che questa grande rivoluzione – penso all'Egitto -

abbia cancellato un regime ma non ne ha creato un altro. Io credo questo francamente, che forse da

Internet bene comune non si poteva pretendere tanto: si poteva pretendere tanto dalla politica che

manca. E qui torniamo sempre allo stesso problema che vi dicevo in conclusione.

Io poi vorrei parlare anche di quello che è successo in Italia dopo il referendum, la presa in

giro che c’è stata dopo il referendum e la mala interpretazione delle sentenze della Corte

Costituzionale che qualcuno citava. Se falliranno - mi auguro di no - le rivoluzioni del Nord Africa,

falliranno perché non si ha la capacità di avere una organizzazione politica (chiamiamola latamente

così) una capacità di confronto-scontro-incontro-vittoria nei confronti del potere. E allora ecco il

problema che Internet - e i beni comuni in generale – sono uno strumento, ma se poi non si ha una

capacità di stabilizzazione degli equilibri politici non funziona.

Ma se non ci fosse Internet ci sarebbe stata la rivoluzione araba? Io dico di no. Io ritengo sia

giusto che sia avvenuta. Io penso che rispetto alla stasi non c'è alcun dubbio che è meglio che sia

avvenuta, poi i problemi non sono superati.

Sì, ci sono costituzioni che magari non parlano di beni comuni ma per esempio dell'acqua,

della tutela dell'acqua. Sono prevalentemente le costituzioni più recenti del sud America: la

brasiliana, la boliviana, prevede una garanzia costituzionale sul bene comune acqua. Se ci fossero

dei costituzionalisti in erba in questa sala io li consiglierei di guardare con grande attenzione le

costituzioni del Sudamerica che sono un laboratorio interessante, laboratorio in senso proprio.

Hanno molte debolezze, perché i paesi del Sudamerica hanno forti debolezze, sono costituzione

troppo ampie, mettono di tutto e c'è un problema di effettività del diritto; però per esempio sui beni

comuni noi possiamo avere qualche insegnamento da queste costituzioni così lontane da noi. Se ci

fosse qualche studente o qualche vecchio costituzionalista in sala questa mia affermazione

“andatevi a studiare le costituzioni sudamericane” l’avrebbe forse un po’ irritato, perché noi

diciamo - io stesso dico - che la tradizione costituzionale più raffinata non è certo quella del

Sudafrica, che abbiamo sempre guardato dall'alto in basso, ma è per esempio quella inglese, quella

tedesca, forse quella americana. Io credo che queste siano costituzioni nobilissime, quelle storiche,

ma forse guardare anche a queste costituzioni sia utile.

Che l'università sia anche, o forse in gran parte, il riflesso delle concezioni dominanti non c'è

dubbio. Che sia solo il riflesso delle concezioni dominanti francamente direi di no e spero di no, ma

comunque no. Anche qui, io credo che bisogna distinguere tra la funzione che l'università deve

avere – Derrida, un famoso intellettuale francese, ha scritto che l’università dovrebbe essere il luogo

della discussione incondizionata, perché se si condiziona l'università questa non è più tale e tradisce

se stessa. Io penso che tendenzialmente questo dovrebbe essere e così non è, però se all'università

non si garantisce la possibilità che almeno qualcuno possa esprimersi in termini critici, francamente

la potremmo chiudere.

La domanda però è: come si creano le condizioni per le quali il sapere si trasmette sì anche

forse secondo i canoni tradizionali - perché poi dobbiamo anche trasmettere il sapere tradizionale -

ma al contempo si trasmettano anche le visioni critiche? Poi ci saranno alcuni professori che

saranno più critici, altri che lo saranno meno. Uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Santi

Romano, aprì una prolusione, all'inizio del novecento, tanti anni fa, dicendo: “Alcuni di voi

potranno pensare che le cose che io dirò sono fumisterie, ma soprattutto non sono in accordo col

pensiero dominante - Santi Romano è stato presidente del Consiglio di Stato successivamente,

quindi in qualche modo era anche espressione del pensiero dominante - ma questo non è un

problema, perché se io dovessi dire qualche cosa che è assolutamente contrario al pensiero

dominante, l'importante è che ci sia qualcun altro che esprima un'altra idea e così avremmo risolto il

problema. Io non sono qui - diceva Santi Romano, grande maestro di diritto costituzionale che ha

segnato le generazioni successive, forse anche in termini critici – l’importante è che ci sia un'idea

che si contrapponga a un'altra”. E quindi ‘vive la difference!’ in qualche modo.

Ma per far questo bisogna considerare l’università non in termini economici, ma in termini

culturali, l'università come bene comune; perché se noi invece ragioniamo sul piano dell'efficienza,

del sapere pratico, io allora allo studente non devo confondere le idee con le mie critiche, ma gli

devo dare soltanto quello strumento che a lui sarà necessario per l'immediato, cioè per essere

auspicabilmente un buon funzionario di un regime, necessariamente un regime - io uso il termine

‘regime’ con una accezione neutra, se si può dare a questo termine un'accezione neutra – cioè un

buon esecutore di un sapere costituito. Non gli devo dare coscienza critica, perché in qualche modo

è disfunzionale al sistema. Se noi pensiamo all'università come bene comune, allora forse anche il

sapere critico può avere un suo senso.

Il professore, dice la nostra costituzione, non è pagato per indottrinare. E’ pagato per

esercitare un’esposizione di informazioni. Voi sapete che noi professori godiamo di un grande

privilegio, cioè del massimo della libertà possibile. Questo nostro privilegio ha un solo senso,

perché non sia in effetti privilegio, bensì prerogativa: proprio il fatto che in qualche modo, come

diceva Santi Romano, possiamo insegnare in termini critici e ci sarà qualcuno che ci contraddirà e

insegnerà in termini acritici o meno. Dall'azienda alla cultura ci sta il bene comune.

Giovanni Franzoni: Mi ha incuriosito il discorso sull'importanza della gestione nei

confronti del titolo proprietario: praticamente chi ha in mano la gestione, anche se non è

proprietario e non è sovrano... Ora, ci sono dei beni comuni che sono assolutamente - non per

situazioni di fatto, ma per situazioni volute, legiferate e ratificate - fuori di ogni sovranità e di ogni

proprietà. Faccio l'esempio della luna: c'è una Convenzione ratificata da tutti gli Stati (è un

miracolo!, perfino dagli Stati Uniti, che sono sempre piuttosto timidi nel ratificare le convenzioni

internazionali) secondo la quale sulla luna non si può porre sovranità né proprietà privata. Ma c'è un

silenzio pauroso sulla gestione dei servizi sulla luna, qualora ci si arrivasse, e sulle orbite sulle quali

si collocano dei satelliti artificiali, sui campi gravitazionali che si creano fra la terra e la luna.

Adesso non ricordo esattamente la data, ma 5 o 6 anni fa Limes, dell’editore Caracciolo,

pubblicò un libretto intitolato ‘Le mani sullo spazio’; io mi ci fiondai con bramosia, anche perché

evocava il film di Rosi ‘Le mani sulla città’, quindi evocava un'immagine di rapina. E

nell'occhiello si diceva ‘Di chi è la luna?’. La domanda era retorica, perché la luna non può de jure

essere di nessuno, perché si è ratificata una Convenzione per cui non è di nessuno, quindi è res

nullius. Caio nelle Istitutiones aveva enunciato questo principio del diritto romano, che la ‘res

nullius est primi occupantis’, la cosa di nessuno è del primo che se la piglia. Però non se la può

prendere né in sovranità, né in proprietà, quindi se la prende in servizi, senza pagare però canoni di

concessione rispetto ad una ipotetica titolarità.

Allora io avevo già scritto per il Giubileo del 2000 sul ‘Credito dei poveri’ (allora si parlava

molto del debito, ma io vedevo un problema di credito), perché se delle corporations, delle agenzie

ecc., utilizzano quello che gli astronomi chiamano outer space, cioè lo spazio esterno, anch’esso

fuori di ogni sovranità e titolo proprietario, si pongono dei servizi col turismo spaziale, con la

possibilità di produzione di farmaci o operazioni chirurgiche in situazioni di microgravità, si

possono instaurare dei servizi. Ci sono dei truffatori che stanno vendendo lotti di terreno sulla luna.

Bisognerebbe leggersele queste cose, perché io sono sicuro che questi non sono così stupidi:

probabilmente promettono servizi e sulla gestione dei servizi poi si innesca una sorta di utilizzo

commerciale dello spazio esterno.

Poi Limes si diffondeva sui progetti degli Stati Uniti e poi sui progetti antagonisti della Cina

e poi c'era un'ultima parte che mi fece sorridere di amarezza perché io m'aspettavo che dicesse che

noi Europa rivendichiamo un titolo sull'utilizzo della luna e dello spazio esterno in favore

dell'umanità intera e invece concludeva domandandosi: “E a noi Europa che ci tocca?”. Tant’è vero

che a Rai Mondo una volta fu presentata questa rivista Limes e io che stavo in macchina chiesi di

intervenire. E quando dissero che davano la parola a Franzoni ho sentito una risata nel sottofondo

della trasmissione “Ah, quello dei beni comuni!”. Perché questa pretesa che la luna sia un bene

comune….

Però è una cosa secondo me estremamente pericolosa perché luna, orbite geostazionarie,

fondi oceanici fuori della piattaforma continentale, Antartide e così via sono ricchezze fuori di ogni

sovranità, fuori di ogni proprietà privata, quindi sono res nullius. Ferrajoli: mi ha detto: “ma per

carità, questo principio delle Istitutiones di Caio è completamente desueto. Invece mi ha detto

Petrella che a Bruxelles quando si discute di queste cose si dice ancora res nullius, quindi è del

primo che le utilizza. Dicono: ‘Primo arrivato, primo servito’, che è una traduzione moderna del

discorso. Per i romani la cosa era più chiara, perché chi possedeva un appezzamento di terra sul

territorio gestito dal diritto romano ce l’aveva ‘fino alle stelle’; ma l'astronomia moderna ci dice una

cosa completamente diversa. Quindi queste sono effettivamente res nullius e questa assenza di

sovranità, di titolo e di diritti dell'umanità, soprattutto delle popolazioni impoverite, secondo me è

oscena.

Domanda: Io volevo ritornare un attimo sull'azione concreta che possiamo fare noi in base a

questa nuova esperienza che stiamo facendo anche nei confronti dell'acqua come movimenti

territoriali, perché quello che noi stiamo sperimentando è veramente un entrare nel conflitto con i

poteri che non vogliono mollare il profitto. Quindi tocchiamo quotidianamente con mano questa

difficoltà di relazionarci con chi dovrebbe restituirci qualche cosa, perché noi siamo dalla parte del

diritto, della ragione, però ci vogliono far passare come persone che invece devono continuare a

tenere bassa la testa, continuare a pagare il profitto ecc. Per cui intanto vi ringraziamo, perché se è

nata tutta questa cosa è perché ci sono state delle persone ‘illuminate’ che ci hanno aperto delle

prospettive diverse di nuova democrazia. Però è veramente difficile, perché ci scontriamo

quotidianamente contro dei muri che non sono di gomma, ma sono proprio di pietra. Ed è dura,

perché quando si entra nel conflitto utilizzando quelli che sono gli strumenti giuridici, c’è sempre

comunque una grande disparità di scontro. Quindi vorrei una parola di speranza su questo punto.

Domanda: Ci può parlare un attimo dalla televisione? Adesso mi pare che stiano dando dei

nuovi canali, però non li danno né a Mediaset né alla Rai, che è una fonte dello Stato.

Risposte del Prof. Azzariti

Io credo che la luna sia un esempio perfetto di bene comune, perché proprio nella

definizione che ho dato inizialmente è certamente un bene essenziale alla sopravvivenza del genere

umano, tanto quanto l'acqua, l’aria… Senza luna non si vive, su questo non ci piove. Quindi è

certamente un bene comune. Il problema però io credo che nasca dallo sfruttamento economico del

bene. Noi oggi non discutiamo della luna perché ancora non abbiamo ben contezza di quanto e di

che tipo di sfruttamento può essere fatto su questo satellite. Io penso ad esempio che la convenzione

che Franzoni ha giustamente ricordato è un'ottima cosa e nasce per ragioni politiche da due motivi

casuali ed importanti. Il primo: perché c'era, soprattutto al tempo in cui fu proclamata, il timore che

potessero essere gli altri per primi a sfruttare. Allora meglio garantirsi e dire ‘non la sfrutta

nessuno’, così evitiamo. Anche perché non si sa che tipo di sfruttamento può essere fatto, anche

molto pericoloso, magari dal punto di vista militare, e quindi è meglio cominciare col dire che

nessuno la sfrutta. La seconda è che in qualche modo ancora oggi, e soprattutto quando fu firmata,

non era attuale e forse non lo è ancora, lo sfruttamento economico del bene. Sa qual è il mio timore?

Chissà se nel momento in cui si dovesse realizzare una possibilità di sfruttamento economico

effettivo del bene comune luna questa convenzione reggerà. Io mi auguro di sì, però lì

cominceranno i problemi.

Io credo che la luna ha un vantaggio rispetto all'acqua: che la luna ha questa convenzione

che è stata stipulata prima che sorgesse il problema dello sfruttamento economico e quindi che fosse

troppo complicato tornare indietro, a dire che un bene economicamente sfruttabile non deve essere

più sfruttato. Perché questo è il problema dell’acqua: se nessuno avesse mai pensato a sfruttare

l'acqua, ci troveremmo semplicemente a dover fare una convenzione del tipo di quella che è stata

fatta per la luna; ma purtroppo non è così.

Adesso forse dirò qualcosa che non sarà condiviso da Franzoni o da altri. Sì, la regola di

Caio dice ‘res nullius est primi occupantis’, ma il primo occupante poi la sfrutta economicamente?

Attenzione, perché questo è il rischio. Cioè il problema del bene comune è che chiunque arriva non

la occupa o perlomeno non la sfrutta economicamente. Questo è il limite di Caio. Quello che noi

dobbiamo imporre è che se è comune, la gestione comune deve rimanere. Non degli Stati Uniti, non

degli Stati, non dei privati e non di altri.

Dalla luna all’acqua. Il problema nostro è che in altre condizioni, anzi normalmente, in

questa terra i beni comuni sono tutti o in gran parte beni economicamente rilevanti. E allora noi

dobbiamo fare un'altra cosa purtroppo, ben più complessa, forse più complessa di quella sulla luna:

dobbiamo tornare indietro, cioè dobbiamo far recedere gli appetiti dello sfruttamento economico del

bene, cosa che non è facile per nessuno, il referendum sull’acqua ce lo dimostra.

Io però credo che abbiamo un'arma. E’ un’arma ahimè spuntata, ma dobbiamo affilarla e

farla valere ed è l'arma del diritto. Lo so che è spuntata, perché ho qui la sentenza della Corte

Costituzionale che ha ammesso il referendum sull’acqua: quello è stato violato. Voi sapete bene che

sono state due i referendum sull'acqua e hanno due problematiche diverse tra di loro, ma

giuridicamente molto significative. Uno dei due referendum era quello che ha abrogato la

remunerazione del capitale, il famoso 7% sulle bollette. La Corte Costituzionale ha chiaramente

detto che non c'erano problemi, che il referendum era ammissibile perché “l'eliminazione della

remunerazione del capitale investito non è essenziale al servizio, perché il servizio, anche per i

privati, è salvaguardato dalla copertura dei costi”. Quindi si può fare a meno del 7%. La normativa

residua, quella che attualmente è vigente, cancellata la parte relativa alla remunerazione del

capitale, “non presenta elementi di contraddittorietà, persistendo la nozione di tariffa come

corrispettivo determinato in modo tale da assicurare la copertura integrale dei costi di investimento

e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio del chi inquina

paga”. Quindi è del tutto illegittimo il fatto che questo 7% permanga. Allora bisogna far valere

questa ragione del diritto. C'è una resistenza politica, c'è una battaglia politica da fare.

Ancora più complessa, a dimostrazione della resistenza del potere, è l'altro referendum che

abrogava l'articolo 23 bis del cosiddetto ‘decreto Ronchi’ che (semplifico un po', anche se non è

esattamente così) obbligava alla privatizzazione. Come si sa, il problema dei referendum è che si

abroga una norma ma non si crea il nuovo, quindi non è vero che, abrogato l'articolo 23 bis, l'acqua

diventa automaticamente un bene comune, non c'è più sfruttamento e abbiamo risolto il problema.

Non abbiamo risolto un bel nulla, però abbiamo dato una chiara indicazione. Del referendum

abrogativo si dice che perlomeno un vincolo comporta: si può far tutto, tranne una cosa:

reintrodurre, riproporre integralmente e sostanzialmente la normativa abrogata. Puoi cambiare le

carte in tavola, ma non puoi ridistribuire le stesse carte. Questa era l'unica certezza che noi avevamo

dei referendum di carattere abrogativo.

Sapete cosa ha fatto il governo ad agosto, due mesi dopo i referendum, 27 milioni, quel

grande successo che si è avuto? Ha reintrodotto l'articolo 23 bis sotto mentite spoglie nel decreto di

agosto, uno dei tanti decreti contro la crisi economica che ormai ci perseguita: ha reintrodotto la

stessa normativa, sostanzialmente, con un'eccezione: per tutti i servizi pubblici, con l'eccezione del

servizio idrico. E’ ammissibile questo, dal punto di vista politico oltreché giuridico? E’ uno

scandalo. Fatemi dire che questo governo ha peggiorato la situazione sull'acqua, perché ha

proseguito con la normativa di agosto aggravando la situazione. E poi lo sapete: qui c'è uno scontro

politico. Io non avrei difficoltà a dirvi quello che penso politicamente, ma non in questo momento,

non voglio parlare né bene né male del governo attuale, però è evidente che questo governo politico

ha una sua ideologia ferrea, giusta o sbagliata che sia in assoluto: la privatizzazione è un bene per

l'Italia. E su questo potremmo discutere: io non la penso esattamente così, ma non è di questo che

voglio discutere. Ammesso e non concesso che le logiche di privatizzazione possano essere

legittime, c'è un limite a questa privatizzazione totalizzante? Io dico che perlomeno un limite c’è: i

referendum espletati, la contraria volontà su una questione che è il bene acqua. Sull'articolo 23 bis

nella sentenza della Corte Costituzionale è chiaramente scritto: “al di là della stessa volontà dei

referendari questo riguarda tutti i servizi pubblici locali”. Vogliamo rispettarlo? Vuole il governo

privatizzare, un governo con un indirizzo politico molto preciso, un’ideologia molto ferrea da

affermare? Ha la maggioranza e lo può fare, però che almeno rispetti la volontà popolare e le

sentenze della Corte Costituzionale. Questo è il minimo che si possa pretendere da qualunque

maggioranza, di qualunque colore. Questa è un'arma. Spuntata? Facciamola valere.

L’asta sull’assegnazione delle frequenze. Il discorso sarebbe molto lungo. Tv bene comune,

trasmissione bene comune: non è detto che la televisione in mano pubblica garantisca che questa

non sia utilizzata a fini privati. D'altra parte è noto che le polemiche relative alla lottizzazione della

Rai sono pane quotidiano. Forse è vero, a differenza di quello che lei mi ha detto poco fa, che non

abbiamo avuto per tanti anni un duopolio, ma abbiamo avuto un monopolio. Allora questo ci

dovrebbe far capire che il problema RAI è in questo frangente quello del beauty contest, non c’è

dubbio, e io penso che anche il beauty contest, ma non solo il beauty contest, dovrebbe in qualche

modo garantire un allargamento del pluralismo.

Ci sono dei vincoli comunitari che forse potrebbero produrre l'esclusione dei 2 duopolisti, di

RAI e di Mediaste, perché hanno troppi canali e quindi potrebbero essere esclusi grazie a una

normativa comunitaria. Secondo me non se ne esce, se si vuole rispettare la normativa comunitaria,

e la RAI e Mediaset dovranno scegliere se farsi dare una concessione che hanno già pagato oppure

partecipare al beauty contest. Questo è un problema politico che verrà affrontato. Secondo me c'è

molta ipocrisia nel dibattito di queste ore.

Ma il problema che io pongo è un altro e anche nel caso del beauty context credo che sia

utile, al di là dei profili economici, che questo sia utilizzato per allargare il pluralismo. Se io fossi

un politico escluderei RAI e Mediaset perché in qualche modo vorrei finalmente favorire altri. Non

voglio dire Sky e La 7, ma forse altri, cioè porre il problema di un allargamento dell'utenza

televisiva.

Però ancor più importante di questo c'è il discorso della cultura bene comune: se la cultura

deve essere bene comune, forse il problema è più complesso, per esempio di una ristrutturazione

degli assetti e della gestione della televisione pubblica, cosa che non mi sembra si riesca a risolvere.

(trascrizione non rivista dal relatore)


Commissione Rodotà - per la modifica delle norme del codice

civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) - Relazione

Commissione Rodotà - elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007)



La relazione

La genesi del progetto

La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.

Una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale
. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e privatizzazione di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse più al passo con i tempi ed in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali dismissioni (ed eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) fossero realizzate nell’ interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo.

Inoltre, era emersa la necessità di azioni concrete per una migliore gestione di particolari tipologie di utilità pubbliche che scaturiscono da beni disciplinati ad oggi in modo frastagliato e poco organico. È il caso delle concessioni del demanio dello Stato, degli Enti territoriali e delle concessioni sullo spettro delle frequenze; ed anche di una serie di beni finanziari (crediti pubblici, partecipazioni) ed immateriali (marchi, brevetti, opere dell’ingegno, informazioni pubbliche, e altri diritti) su cui sembrava necessario agire attraverso una riforma generale del regime proprietario di riferimento. L’iniziativa, in una prima fase, fu accolta positivamente dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze. Essa, tuttavia, con il cambio di Ministro, avvenuto nel mese di luglio del 2005, non fu ulteriormente perseguita.

Nel Giugno del 2006 i lavori del Conto Patrimoniale sono stati presentati in una Giornata di studio che si è svolta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei dal titolo “Patrimonio Pubblico, proprietà pubblica e proprietà privata”. In quella sede un autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti), era giunti unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro sicuramente collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni pubblici contenuti nel Codice civile attraverso l’istituzione di una apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è stata accolta dal Ministro della Giustizia. I lavori della Commissione sono stati avviati con la prima riunione plenaria che si è tenuta presso il Ministero il 4 di luglio 2007. I lavori della Commissione Rodotà, coadiuvata con notevole efficienza dalla Segreteria Scientifica e dal personale dell’ Ufficio Legislativo del Ministero della Giustiza, diretto dal compianto Consigliere Gianfranco Manzo, che molto aveva creduto in questo progetto, si sono articolati per complessive 11 riunioni plenarie e 5 riunioni speciali della Segreteria Scientifica in tre fasi : a) la raccolta degli elementi conoscitivi-normativi indispensabili; b) l’ audizione di alcune fra le più rilevanti personalità del mondo accademico, professionale ed altri soggetti a vario titolo direttamente interessati dal progetto di riforma; c) la discussione teorica e la stesura dei principi fondamentali della legge delega.



I presupposti del lavoro.

Meritano di essere brevemente ripercorse talune delle ragioni che hanno suggerito al Ministero della Giustizia di metter mano alla riforma del Titolo II del Libro III del Codice Civile del 1942 e di altre parti dello stesso rilevanti al fine di recuperare portata ordinante alla Codificazione in questa materia.

In primo luogo, i cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 ed oggi hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici. Alcune importanti tipologie di beni sono assenti. Tale assenza ad oggi non è più giustificabile. In primo luogo i beni immateriali, divenuta oggi nozione chiave per ogni avanzata economia. Altre tipologie di beni pubblici sono profondamente cambiate negli anni: si pensi ai beni necessari a svolgere servizi pubblici, come le c.d. “reti”, sempre più variabili, articolate e complesse. I beni finanziari, tradizionalmente obliterati a causa della logica “fisicistica” del libro III, ancora legato ad una idea obsoleta della proprietà inscindibilmente collegata a quella fondiaria, andavano recuperati al Codice civile. Inoltre, le risorse naturali, come le acque, l’ aria respirabile, le foreste, i ghiacciai, la fauna e la flora tutelata, che stanno attraversando una drammatica fase di progressiva scarsità, oggi devono poter fare riferimento su di una più forte protezione di lungo periodo da parte dell’ ordinamento giuridico. Infine, le infrastrutture necessitano di investimenti e di una gestione sostenibile per tutte le classi di cittadini.

In secondo luogo, una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico, ispirata a criteri di efficienza, che si è sviluppata anche a causa delle difficoltà e degli squilibri in cui si trovano gran parte dei bilanci pubblici europei, richiede, da una parte, un contesto normativo che favorisca una migliore gestione dei beni che rimangono nella proprietà pubblica, e dall’altra, la garanzia che il governo pro tempore non ceda alla tentazione di vendere beni del patrimonio pubblico, per ragioni diverse da quelle strutturali o strategiche, legate alla necessaria riqualificazione della dotazione patrimoniale dei beni pubblici del Paese, ma per finanziare spese correnti.



Le opzioni ed il mandato della commissione.

La Commissione ha cominciato i propri lavori con un approfondito studio della letteratura più autorevole consacrata negli anni alla materia dei beni pubblici, nell’ ambito della quale importanza cruciale riveste tradizionalmente la nozione di demanialità. La matrice della moderna dottrina del demanio nasce da una distinzione nell’ambito dei beni (soggettivamente) pubblici, tendente ad individuare alcune categorie di beni da tenersi fuori dall’applicazione del diritto comune perché strettamente destinati ad una funzione di pubblico interesse. La dottrina ha da tempo dimostrato che l’impianto contenuto nel Codice civile del 1942, presenta più ombre che luci.

L’insoddisfazione per l’assetto dato dal Codice Civile ha prodotto una vasta letteratura nella quale vengono avanzate diverse proposte di soluzioni alternative. La più autorevole dottrina cerca di scomporre le categorie tradizionali attraverso un’analisi storica dell’istituto della proprietà, condotta sia con riferimento alla scienza giuridica privatistica che a quella pubblicistica. Tale opera influenzerà tutta la scienza giuridica successiva sviluppatasi sulla natura e sulla tassonomia dei beni pubblici contenuta nel Codice civile.

Sulla base di questi presupposti, anche corroborati da una indagine comparatistica condotta dalla Segreteria scientifica che ha documentato a fondo i sistemi francese, tedesco, spagnolo, canadese, belga e statunitense, la Commissione ha accolto l’ idea di porsi alla ricerca di una tassonomia dei beni pubblici che riflettesse la realtà economica e sociale delle diverse tipologie di beni, nella convinzione che il mero statuto giuridico delle singole tipologie, consegnato al diritto italiano vigente, costituisse un criterio arbitrario. Massimo Severo Giannini ha scritto a più riprese che la disciplina dei beni pubblici contenuta nel codice è meramente formale, a partire dalla distinzione fra demanio e patrimonio. Per questa ragione, la Commissione ha voluto seguire la via delle scelte sostanziali.



Le linee generali della riforma proposta

Dal punto di vista dei fondamenti, la riforma si propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato. Invece del percorso classico che va “dai regimi ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai beni ai regimi”. L’analisi della rilevanza economica e sociale dei beni individua i beni medesimi come oggetti, materiali o immateriali, che esprimono diversi “fasci di utilità”.

Di qui la scelta della Commissione di classificare i beni in base alle utilità prodotte, tenendo in alta considerazione i principi e le norme costituzionali – sopravvenuti al codice civile – e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali.

Preliminarmente, si è proposto di innovare la stessa definizione di bene, ora contenuta nell’art. 810 Codice civile, ricomprendendovi anche le cose immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti: si pensi ai beni finanziari, o allo spettro delle frequenze.



Si è poi delineata la classificazione sostanziale dei beni. Si è prevista, anzitutto, una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’ aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali.

Sono beni che – come si è anticipato – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche.

La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità.

Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare, la possibilità di loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela restitutoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione.

Per quel che riguarda propriamente i beni pubblici, appartenenti a soggetti pubblici, si è abbandonata la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, introducendosi una partizione sostanzialistica.

Si è proposto di distinguere i beni pubblici, a seconda delle esigenze sostanziali che le loro utilità sono idonee a soddisfare, in tre categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni fruttiferi. I beni ad appartenenza pubblica necessaria si sono definiti come beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Si tratta di interessi quali, ad esempio, la sicurezza, l’ordine pubblico, la libera circolazione. Si pensi, fra l’altro, alle opere destinate alla difesa, alla rete viaria stradale, autostradale e ferroviaria nazionale, ai porti e agli aeroporti di rilevanza nazionale e internazionale. In ragione della rilevanza degli interessi pubblici connessi a tali beni, per essi si è prevista una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi stabilita per i beni demaniali: restano ferme inusucapibilità, inalienabilità, autotutela amministrativa, alle quali si aggiungono garanzie esplicite in materia di tutela sia risarcitoria che inibitoria.

I beni pubblici sociali soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra l’altro, le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici pubblici adibiti a istituti di istruzione, le reti locali di pubblico servizio. Se ne è configurata una disciplina basata su di un vincolo di destinazione qualificato. Il vincolo di destinazione può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e ad enti pubblici anche non territoriali.

La terza categoria, dei beni pubblici fruttiferi, tenta di rispondere ai problemi a più riprese emersi in questi ultimi tempi, che sottolineano la necessità di utilizzare in modo più efficiente il patrimonio pubblico, con benefici per l’erario. Spesso i beni pubblici, oltre a non essere pienamente valorizzati sul piano economico, non vengono neppure percepiti come potenziali fonti di ricchezza da parte delle amministrazioni pubbliche interessate. I beni pubblici fruttiferi costituiscono una categoria residuale rispetto alle altre due. Sono sostanzialmente beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Si sono però previsti limiti all’alienazione, al fine di evitare politiche troppo aperte alle dismissioni e di privilegiare comunque la loro amministrazione efficiente da parte di soggetti pubblici.

Si sono individuati, infine, criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. Per l’uso di beni pubblici si è previsto, fra l’altro, il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne l’utilizzatore; si sono stabiliti meccanismi di gara fra più offerenti e strumenti di tutela in ordine all’impatto sociale e ambientale dell’utilizzazione dei beni e in ordine alla loro manutenzione e sviluppo.



Le singole disposizioni del disegno di legge delega.

Veniamo all’illustrazione delle singole disposizioni contenute nel disegno di legge delega predisposto dalla Commissione, che consta di un unico articolo.

Il comma 1 prevede un termine di dieci mesi per l’adozione di un solo decreto delegato avente ad oggetto la modifica del Capo II del Titolo I del Libro II del Codice Civile nonché di altre norme strettamente connesse.

Il comma 2 sottolinea che le norme di delega attuano direttamente i principi di cui agli articoli 1, 2, 3, 5, 9, 41, 42, 43, 97, 117 della Costituzione e tende ad assicurare particolare resistenza alle norme di delega e a quelle delegate, prevedendo limiti per eventuali modifiche disposte tramite leggi di settore concernenti singoli tipi di beni. Il comma 3 detta i principi e i criteri direttivi generali:



a) La revisione dell’art. 810 cod. civ., al fine di includervi, come beni, anche le cose immateriali.



b) La distinzione dei beni in comuni, pubblici e privati.



c) La previsione della categoria dei beni comuni, cioè delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. La norma precisa la titolarità dei beni comuni, le condizioni per la loro fruizione collettiva, gli strumenti di tutela amministrativa e giurisdizionale. Viene fornito un elenco esemplificativo di tali beni. Si prevede il coordinamento fra disciplina dei beni comuni e disciplina degli usi civici.

d) La classificazione dei beni pubblici, appartenenti a persone pubbliche, in tre categorie:

1) Beni ad appartenenza pubblica necessaria, cioè quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. La norma fornisce un elenco esemplificativo di tali beni. Ne prevede la non usucapibilità, la non alienabilità e le forme di tutela amministrativa e giudiziale.

2) Beni pubblici sociali, cioè quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Anche in tal caso, l’elenco è esemplificativo. La norma prevede un vincolo di destinazione pubblica e ne limita i casi di cessazione.

3) Beni pubblici fruttiferi, che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti di diritto privato. La norma regola i casi e le procedure di alienazione.



e) La definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. La norma prevede i criteri per il giusto corrispettivo dell’uso di beni pubblici, il confronto fra più offerte, la tutela dell’impatto ambientale e sociale dell’uso e le garanzie di manutenzione e sviluppo.



I commi 4 e 5 regolano le procedure di adozione del decreto legislativo.

Il comma 6 prevede la possibilità di decreti integrativi e correttivi, nel rispetto dei principi e dei criteri di delega.

Il comma 7 sottolinea l’assenza di nuovi oneri a carico della finanza pubblica.



Conclusioni

Il disegno di legge proposto ha tre caratteristiche innovative.

In primo luogo, contiene una disciplina di riferimento per i beni pubblici idonea a recuperare una dimensione ordinante e razionalizzatrice di una realtà normativa quanto mai farraginosa. Essa presenta i tratti di una riforma strutturale e non contingente.

In secondo luogo, il disegno offre una classificazione dei beni legata alla loro natura economico-sociale, che appare sufficientemente agevole da cogliere, a differenza di quella tradizionale fra demanio e patrimonio indisponibile, che, come abbiamo visto, è meramente formalistica.

Infine, la proposta che qui si presenta riconduce la parte del Codice civile che riguarda i beni pubblici – ed in generale la proprietà pubblica - ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale, collegando le utilità dei beni alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici essenziali.

L’auspicio è che ne possano derivare risultati costruttivi.


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Partiamo dalle definizioni che, senza esagerare, possono aiutarci a non cadere nell’astrattezza che un po’ perseguita i buoni principi e le belle parole della nostra pubblica amministrazione.




Elementi distintivi di un bene comune

“A partire dal lavoro della Commissione Rodotà - spiega Lucarelli - si è inteso che bisogna andare oltre la contrapposizione pubblico – privato e conseguentemente oltre la dicotomia beni pubblici - beni privati. Si è reso evidente che occorre lavorare per la costruzione di una nuova categoria che sono i beni comuni . Aldilà del titolo proprietario, ciò che è importante nella definizione di beni comuni è che sono beni di appartenenza collettiva e che devono essere tesi a soddisfare diritti fondamentali. Ciò che rileva per i beni comuni quindi non è il titolo di proprietà ma è la loro funzione, ovvero andare a soddisfare fasce di utilità. Come paradigma generale dei beni comuni, per rendere chiara la definizione, potrei senza dubbio parlare dell’acqua”.

I beni comuni, alla ricerca di una governance

“Il tema di grande attualità, in riferimento ai beni comuni, è quello della loro gestione”, riconosce Lucarelli “Intendo dire – continua - che aldilà della definizione della categoria si pone il problema della gestione di questa particolare tipologia di “beni”. Sicuramente la gestione dei beni comuni non può prescindere dalla democrazia partecipativa cioé non può prescindere da una gestione pubblica partecipata. Una gestione pubblica partecipata prevede un modello non orientato al commercio, estraneo alle logiche del mercato e del profitto ma che nello stesso tempo sa immaginare e rendere effettivo il coinvolgimento dei cittadini”.

“Il coinvolgimento dei cittadini – sottolinea – è necessario per evitare la riproposizione di vecchie logiche statalistiche o pubblicistiche”.

E precisa “I cittadini attivi devono essere coinvolti come soggetti in grado di controllare, proporre ma anche di gestire”.

Alberto Lucarelli ha partecipato alla Giornata dell'Innovazione Sociale Made in Italy, il 17 maggio a FORUM PA 2012, con lo speech "La democrazia partecipativa nell'esperienza del Laboratorio Napoli – Costituente per i beni comuni"

A Napoli, dove l’acqua è pubblica e i cittadini partecipano

Unico Comune che ha attuato la volontà referendaria del 12- 13 giugno 2011, quando 27 milioni di cittadini si sono espressi contro la privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni, il Comune di Napoli è stato il primo a trasformare il soggetto gestore da società per azioni in soggetto di diritto pubblico. ABC Napoli - Acqua Bene Comune Napoli, infatti, è l’azienda speciale che gestisce l’acqua a Napoli attraverso metodi partecipativi. Nel Consiglio di Amministrazione siedono i cittadini e i rappresentanti delle associazioni ambientaliste che hanno lo stesso potere dei tecnici, cioè di quelle figure nominate direttamente dal sindaco e in più è previsto un Comitato di sorveglianza, dove siedono ancora rappresentanti di cittadini, utenti e associazioni ambientaliste così come rappresentanti del lavoratori dell’azienda. In sostanza è il primo esempio di una governance partecipata, con il coinvolgimento dei cittadini, per quanto riguarda la gestione dei beni comuni.



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